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Alfonso

Alfonso

A Gragnano la pasta è una questione di famiglia. Nella piccola bottega di Alfonso, in una traversa di via Roma, ci lavorava tutta la sua famiglia e un po’ di più: c’erano il padre e la madre, il fratello zoppo e un vecchio vicino di casa che chiamavano tutti zio (ma che non era lo zio di nessuno), la cognata vedova e suo figlio, una zitella e ogni tanto pure il parroco passava a dare una mano. Era una grande famiglia ammiscata, come la pasta che sua nonna preparava mettendo insieme tutti gli avanzi che aveva in casa per farci la zuppa d’inverno. C’era amore in quella grande famiglia allargata e questo rendeva la pasta speciale.

Angelo

Angelo

Angela amava sperimentare le farine, giocare con il tempo di essiccazione e provare nuove trafile. A differenza di Petruccio, che aveva la bottega poco lontano, era sempre gentile e riservata e per questo tutti la chiamavano l’angelo.

A sera, dopo una dura giornata di lavoro, se c’era da alzare il bicchiere per un brindisi non si tirava mai indietro. Da ragazza avrebbe dovuto entrare in convento, il padre aveva deciso così. C’erano stati litigi, musi lunghi e mani alzate ma Angela da bambina si era innamorata del profumo della pasta e l’Amore, si sà, vince su tutto.

Aniello

Aniello

Aniello era sordo dall’orecchio destro per colpa di suo fratello e di una pietra (ma più per colpa di suo fratello, che gliela tirò per gioco).

Amava restare seduto su una sedia, fuori al pastificio, ad ascoltare il leggero rumore della pasta mossa dal vento quando veniva lasciata ad essiccare. Un solo orecchio gli bastava per accorgersi di un rumore che sentiva solo lui. Faceva “shhhh”, come gli scialatielli, che inventò ascoltando la pasta sussurrare.

Antonio

Antonio

Oggi quasi più nessuno ricorda Tonino: o Mast ’e Farina, come lo chiamavano nel paese, in un tempo così lontano che nemmeno l’acqua del Vernotico lo ricorda più. Prima di diventare pastaio, aveva un piccolo mulino che aveva ereditato dal nonno insieme a un mulo e poco altro. Più di altri, Tonino era un maestro del grano: non andava quasi mai a piazza Trivione a comprare la semola, ma conosceva tutti i campi della zona e i contadini che li coltivavano. Sapeva leggere il tempo e conosceva i raccolti. Ogni giorno, fino a tarda notte, macinava, selezionava e mescolava, alla ricerca della miscela perfetta. Fino a trovarla nei suoi spaghetti: ruvidi, saporiti, digeribili. Come li aveva sempre sognati.

Baldassarre

Baldassarre

“La migliore pasta di Gragnano”. “L’unica trafilata al bronzo”. “Pasta Baldassarre, una Pasta da Re”. Nessuna di queste affermazioni era propriamente vera. Certo, la pasta di Baldassarre era un’ottima pasta, tra le migliori di Gragnano, ma non “la migliore”. Era trafilata al bronzo, vero, ma non era l’unica. La pasta del Re poi…vabbè la verità è che Baldassarre era un ottimo pastaio, ma un venditore ancora migliore: ascoltava le persone e le loro richieste, come quando una signora gli disse che gli ziti erano troppo grossi per i “piccirille” e lui si inventò i mezzanelli, una “via di mezzo” appunto, con cui conquistò la sua fama.

Carmine

Carmine

Anche se faceva il pastaio a Gragnano e tutti i giorni andava a comprare la semola in piazza Trivione, Carmine non era di Gragnano. Qualcuno raccontava che era dovuto scappare da Napoli per un affare di coltelli finito male, qualcun altro parlava di una donna. Ma spesso la verità è nel mezzo e ancora più spesso c’è di più. Eh già, perché Carmine era dovuto sì scappare per amore, ma il suo amore si chiamava Tonino, figlio di un noto medico del Vomero. Ogni sera accarezzava lentamente quelle trafile ruvide come un viso e quando cucinava metteva in pentola pasta e ricordi.

Ciro

Ciro

Molti pastai si concentrano sulla farina, alcuni sull’acqua. Ciro si concentrava sul colore: divideva la sua pasta in gradazioni di bianco ottenute da dettagliate ricette che conservava gelosamente in un taccuino. Una volta un mercante tedesco di passaggio lo soprannominò Herr Weiss, e questo lo rese molto orgoglioso.

Per Ciro la pasta era una tela sulla quale dipingere e ogni consiglio che dava era sempre sul colore: “Va con le patate? Allora ti serve avorio” oppure “Minestrone? Biancospino, non puoi sbagliare”. Per quelle di mare, inventò la Calamarata, bella gialla. Grazie a Herr Weiss ogni piatto diventava un’opera d’arte.

Egidio

Egidio

A prima vista Egidio aveva tutto: la produzione e la vendita della pasta andavano bene, aveva una moglie che lo amava e una figlia che lo adorava. Egidio però non ci vedeva più: era cieco come una talpa! La vera pastaia era sua figlia Gemma che aveva ereditato da lui tutti i segreti del mestiere. Da piccola mangiavano spesso assieme e Egidio divideva sempre i pennoni: una forchettata a lui e una a Gemma. Ispirati da quel ricordo, con gli occhi di lei e i consigli di lui, inventarono le pennoni rigati.

Emidio

Emidio

Il nonno di Emidio, Antonio, impastava i maccheroni a mano e così suo figlio Raffaele, che decise di aprire il primo pastificio. Così, di generazione in generazione: fino ad arrivare ad Emidio.

La vecchia insegna spicca ancora in cima all’edificio, facendo riaffiorare i ricordi di un bambino. Un bambino che respirava il profumo della pasta, che correva tra i filari e soffiava bolle di sapone, mangiava le linguine, le sue preferite, mentre sognava di creare “la pasta più buona del mondo”.

Francesco

Francesco

“Da grande non farò mai pasta”! Pensava Gabriella quando, da bambina, aiutava il padre nella bottega di pastaio. Capita a volte però che sia il caso a decidere per noi e il suo decise di farle incontrare Michele, che di mestiere faceva il veterinario. Gabriella non divenne mai una pastaia, ma suo figlio Francesco si. Già da bambino aiutava il nonno a tagliare la pasta, ma andava sempre di fretta, come le sue trafile che tagliavano la pasta più corta del solito.

Imprecisa ma buonissima, come le sue mezze maniche rigate.

Gaetano

Gaetano

Gaetano e Margherita si erano trasferiti a Gragnano da Salerno. Si erano innamorati della zona durante uno di quei viaggi vicini e lontani che ormai non si fanno più. Mentre passeggiavano in via vecchia San Leone, salendo verso la collina piena di terrazze coperte per asciugare la pasta, avevano deciso che quello sarebbe stato il loro futuro. Non avevano figli e così tutto il loro amore lo mettevano nella loro piccola bottega.

Dopo tanti anni, qualcuno ancora racconta di aver trovato l’anima gemella mangiando le zuppe preparate con i loro tubetti rigati. Diceva Margherita “perché il cucchiaio non prende mai un tubetto tutto solo”.

Gennaro

Gennaro

 

Gennaro era un ottimo pastaio e un brav’uomo, solo un po’ solitario. Lavorava quasi sempre da solo e consegnava tutto di persona. Per 364 giorni parlava poco e comunicava spesso soltanto con cenni della testa o gesti. 364, perché poi un giorno, ogni anno, diventava un’altra persona: il 16 luglio, al suo compleanno. Quel giorno c’era sempre il sole e il pastaio silenzioso si trasformava: appendeva luci nella bottega, regalava biscotti ai bambini e pacchi di una pasta speciale che infiocchettava come gioielli: i corallini, ispirati agli artigiani dell’oro rosso di Torre del Greco.

Alla fine tutti gli volevano bene, 365 giorni l’anno.

Gerardo

Gerardo

Gerardo era andato a bottega presto. Voleva fare il pastaio più di ogni altra cosa, ma era negato. Sbagliava il grano, le farine e la temperatura dell’acqua, non sapeva essiccare e confondeva sempre gli ordini.

Una sera, disperato, andò giù nella chiesa del paese e accese una candela a San Sebastiano: “ti prego, famme impara’ a fare la pasta”. Il giorno dopo, arrivato al pastificio fu illuminato e decise di non tagliare la pasta e farla scendere giù nelle trafile, lunghissima, come le candele che aveva accesso.

Giacomo

Giacomo

 

Le storie di pasta raccontano spesso di famiglia e amore, ma a volte l’amore è anche orgoglio e appartenenza. Come quella di Giacomo: figlio, fratello, nipote e cugino di pastai. Quando tutta la sua famiglia si trasferì a Castellammare per allargare la produzione lui li seguì, ma il suo cuore no, quello rimase a Gragnano.

“Tu tiene ’a capa fresca”! gli diceva sempre la madre ogni volta che le confidava di voler tornare, e non ci volle molto finché non lo fece davvero. Per non fare la stessa pasta dei parenti, a cui teneva tanto, la tirava attorno a un bastoncino, per lasciargli un buco tutto in mezzo. Il bucatino:la sua firma.

Gigino

Gigino

L’arteteca ‘e via Roma, così lo chiamavano i pastai del quartiere. Giggino da bambino era uno scugnizzo e si divertiva a rubare le fettucce ancora fresche per usarle come fionde e i genitori erano disperati.

Un bel giorno però, conobbe Anna, la figlia di Tore il Pazzo, uno dei pastai più severi della via. Per conquistarla, si fece assumere come pastaio. All’inizio non fu facile, ma col tempo si dimostrò molto bravo, tanto che spesso il suocero Tore, ormai avanti con gli anni, gli lasciò perfezionare quelle fettucce che arteteca usava come fionde.

Gioacchino

Gioacchino

Uno dei primi pastai fu Gioacchino, ma tutti lo chiamavano Petruccio, perché era duro come la pietra delle macine dei mulini. Ogni mattina si svegliava prima dell’alba e passava a prendere i tre o quattro garzoni che aveva a bottega. Li tirava giù dal letto uno ad uno. Lavorare con lui era difficile, la fatica era tanta ma Ciro, sotto sotto, era buono.

Di “paccheri” non ne aveva mai tirati, ma era il migliore ad essiccare quelli lisci. Riusciva a capire il punto di essiccazione della pasta a colpo d’occhio; se era pronta o se ci voleva più tempo o di una “vutata d’aria”, come la chiamava lui.

Giovanni

Giovanni

E poi c’era Giovanni, mastro pastaio in uno dei pastifici più grandi ed organizzati di Gragnano.

Aveva iniziato molti anni prima come “maccaronaro” in una stanza del mulino del fratello Antonio, che lavorava il grano mentre lui faceva la pasta che lasciavano essiccare in uno spazio ricavato in soffitta. Erano solo antichi esperimenti, ma è così che impararono tutto sul grano e sulle farine, sullo stoccaggio e su come organizzare una produzione per renderla efficiente. Su una sola cosa non andavano d’accordo: per Giovanni i tubetti erano troppo piccoli e, di nascosto, piano piano, li fece grandi come piacevano a lui: nascevano i tubettoni rigati.

Mimì

Mimì

Mimì Acquapazza fu uno dei primi pastai di Gragnano a capire che l’acqua era importante, tanto quanto il grano o la macinatura. A quei tempi si usava quella che c’era, ma Mimì aveva trovato un paio di sorgenti, che teneva ben nascoste. Non era uno studioso Mimì, anzi, ma aveva una certa sensibilità per l’acqua. La mamma raccontava a tutti che questo dono gliel’aveva lasciato, come Achille, San Sebastiano quando lo aveva salvato dal Vernotico, dove era caduto da piccolo. Tornato a casa, per calmarlo, gli preparò gli ziti tagliati al ragù. Non a caso, era il formato che faceva meglio.

Nicola

Nicola

Nicola era un brigante, di quelli tosti. Aveva formato una piccola banda con altre tre teste dure, si facevano chiamare “I quattro castelli” perché assaltavano in un’area compresa tra i castelli di Pino e Gragnano. Una notte, durante una delle sue scorribande, fu assalito sotto l’arco napoleonico e decise di cambiare vita. Iniziò a fare il pastaio insieme a uno zio della madre e scoprì di essere bravo, ma bravo veramente.

La sua specialità era la trafilatura dei rigatoni. Anni ad affilare coltelli gli avevano insegnato come lavorare il metallo e farne ciò che gli voleva. E lui voleva solo fare la pasta, rigata a mestiere.

Pasquale

Pasquale

Pasquale veniva da una famiglia povera. Lo aveva cresciuto la madre, Anna, da sola, insieme ad altri due fratelli. Il più piccolo aveva il suo stesso compleanno, ma era nato 10 anni dopo, appena prima che il padre andasse via.

Faceva due lavori Pasquale, uno nelle notti pari, il pastaio e l’altro, nelle notti dispari: aiutava la madre in sartoria. Aveva le spalle larghe e parlava poco. Il lavoro per portare avanti la famiglia era tanto e nelle domeniche d’estate gli piaceva mangiare tutti assieme. Un piatto unico, di pasta, olio e pomodoro fresco. Perfetto per i suoi mezzi paccheri rigati.

Peppone

Peppone

Peppone era un buon padre di famiglia e la pasta la faceva insieme a moglie e figli. Era arrivato a Gragnano da Napoli da qualche anno e con un po’ soldi con sé, quando aprì la bottega dove cominciò subito la produzione. Gli affari andavano a gonfie vele. Si lavorava tanto e si cucinava direttamente nella bottega; lui faceva la pasta e la moglie la salsa. L’odore si spargeva per tutta la via e la gente iniziò a chiedergli di assaggiarla. Fusilletti “alla Peppone”. Poteva aprirsi un ristorante, ma lui era nato pastaio e questo gli piaceva fare.

Raffaele

Raffaele

Raffaele, il pastaio triste, come tutti lo chiamavano, aveva avuto una vita tosta: al tramonto si chiudeva a chiave, sceglieva ogni volta percorsi diversi per andare a caricare la farina, evitava le strade buie e si guardava sempre intorno con circospezione. L’accoglienza migliore che ci si poteva aspettare entrando nella sua bottega era un silenzio educato. La sua pasta però era incredibile, viva, arrabbiata. Nessuno ha mai scoperto come facesse a farla così, come nessuno aveva scoperto i suoi segreti o capito che fine avesse fatto quando trovarono la bottega aperta, con dei fusilli che così grandi non si erano mai visti sul banco e della farina rovesciata sul pavimento. Raffaele non si vide più e quei fusilloni divennero una vera e propria leggenda.

Rino

Rino

Rino era alto quasi 2 metri. Barba folta e ispida, spalle larghe e tronchi al posto delle braccia. Grande, grosso, gli piaceva cantare e aveva paura del buio. Nessuno lo avrebbe mai detto. Lavorava tanto di notte ma al chiaro di luna, per stare alla luce. Era instancabile e le mani forti gli permettevano di lavorare al doppio della velocità degli altri, che intanto dormivano pure.

Cantava alla luna mentre trafilava gli spaghetti. Avrebbe voluto uno strumento, una chitarra, ad accompagnare la sua voce.

Sabatino

Sabatino

Sabatino era un umile contadino. La sorte gli aveva affidato un piccolo appezzamento poco fuori Gragnano, proprietà di un nobile napoletano che se ne curava poco. Così poco, che un giorno smise completamente e Sabatino si ritrovò proprietario di quel fazzoletto di terra. All’inizio ci mise del grano, poi iniziò a comprare altra semola per fare la pasta. Chiese aiuto agli altri pastai locali ed ebbe la fortuna di imparare dai migliori. Alla fine in pochi anni, Sabatino divenne uno dei pastai più apprezzati di Gragnano, grazie alle sue mezze penne lisce. Era fortunato certo, ma come per il grano, la buona sorte deve essere coltivata.

Salvatore

Salvatore

Salvatore era innamorato della musica. Da piccolo aveva sempre sognato di suonare l’organo a canne, quello delle grandi chiese di Napoli delle storie che la nonna gli raccontava per farlo addormentare. Ma non poteva. Per studiare musica ci volevano soldi e lui di soldi non ne aveva molti, anzi non ne aveva proprio. E così passava il tempo a sognare e suonare quello che trovava.

Un giorno, mentre era a bottega da un pastaio, per caso provò a suonare “nu pacchero rigato” come un piffero. Ne uscì solo un fischio strano, visto che era largo, ma tanto bastò. Col tempo Salvatore imparò ad ascoltare la pasta. Perché la pasta è come la musica, e anche quando la cuoci puoi capire che la musica è ovunque, basta saperla ascoltare.

Saverio

Saverio

Era un tipo preciso Saverio, molto preciso. La sua bottega era sempre in ordine, come una farmacia. Controllava uno ad uno i sacchi di semola, si informava sulla provenienza e faceva sempre mille domande. Sceglieva personalmente l’acqua, la scaldava al punto giusto e la trafilatura non poteva mai iniziare senza il suo permesso, soprattutto quella delle pennacce, rigate, come piacevano a lui.

Niente era lasciato al caso, tranne una cosa: il vento, un’unica incognita che gli andava pure bene. Quando metteva ad essiccare la pasta fuori dalla bottega, lasciava che fosse il vento a finire il lavoro. Era un tipo romantico Saverio, molto romantico.

Sebastiano

Sebastiano

Prima che un pastaio, Sebastiano era un seduttore. E quante ne faceva innamorare mentre caricava a torso nudo la farina. “E assaggia, l’ammore è come la pasta, se la mantieni troppo scuoce”. Tutte arrossivano, tranne Carolina che a Sebastiano piaceva più di ogni altra. A lei piaceva la pasta col sugo e la ricotta ma i maccheroni non lo trattenevano bene. Capì che se avesse inventato un formato perfetto per quel piatto, la avrebbe conquistata.

Passò giorni e notti e perfezionare le trafile, doveva essere lunga, larga e avere ai lati una forma che si pigliasse tutta la ricotta: aveva inventato le Mafalde, aveva conquistato Carolina.

Vincenzo

Vincenzo

C’è chi il pastaio lo fa per una questione di famiglia, chi per necessità. Vincenzo, come Bocca di Rosa, lo faceva per Amore. No, non amore per la pasta, pure se gli riusciva bene, né per amore. Vincenzo era innamorato dei Gigli, voleva fare il “cullatore” ma per un problema alla schiena non ci era mai riuscito. E poi tra i mestieri che vanno in processione non c’era quello dei pastai.

Curvo su se stesso, dopo anni e anni a perfezionarli, inventò un tipo di pasta perfetta con il sugo, che gli piaceva tanto e dopo la processione, ogni anno, ne portava un pentolone a tutti i cullatori. Erano le penne rigate.